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Confessioni di un Coach Spirituale: Cosa Ho Fatto Quando l’Invidia Stava per Divorarmi (e la Pratica che Mi Ha Salvato)

Era un martedì sera di settembre del 2023. Una di quelle serate normali, quasi banali. I ragazzi erano a letto, la casa finalmente silenziosa.

Dopo una giornata intensa di lavoro e di famiglia, mi ero concesso trenta minuti di “stacco”: divano, telefono in mano, scrolling passivo sui social media. Non cercavo nulla in particolare, lasciavo solo che il pollice scorresse, un’anestesia digitale per una mente stanca.

Poi, all’improvviso, una foto mi bloccò.

Era il post di un collega, un formatore che conosco e stimo, anche se con una punta di sana competizione. La foto lo ritraeva sorridente, in una grande libreria, mentre firmava una copia del suo nuovo libro. Ma non era un libro normale. La didascalia parlava di un contratto con una delle più grandi case editrici nazionali, di una distribuzione in tutti gli autogrill, di un tour di presentazioni nelle principali città italiane.

Un successo enorme, indiscutibile, di quelli che sognavo segretamente per me da anni.

In un istante, il mio corpo reagì prima ancora della mia mente. Sentii una morsa allo stomaco, come un pugno invisibile. Un’ondata di calore mi salì al viso. Il mio respiro si fece corto. E nella mia testa, un coro di voci sgradevoli iniziò a urlare: “Perché lui e non io? Lavoro il doppio. I miei contenuti sono più profondi. Non è giusto. Non ce la farò mai ad arrivare a quel livello.”

Era invidia. Pura, tossica, bruciante.

E subito dopo l’invidia, arrivò qualcosa di ancora peggiore: la vergogna. Un’altra voce, più subdola e critica, si aggiunse al coro: “Ma come ti permetti? Tu, che parli di Stoicismo e di presenza. Tu, che insegni a dis-identificarsi dall’ego. Guarda come sei messo. Sei un impostore. Un coach spirituale che prova invidia. Sei un completo fallimento.”

Questo è il momento che i buddisti chiamano “la seconda freccia”.

La prima freccia è il dolore inevitabile della vita (in questo caso, l’emozione dell’invidia). La seconda, che scagliamo noi stessi contro di noi, è la sofferenza che creiamo giudicando quel dolore. E quella seconda freccia, quella della vergogna, faceva molto più male della prima.

Ero a un bivio.

Potevo fare quello che facciamo quasi tutti:

1) Reprimere l’emozione, facendo finta di nulla e lasciandola marcire dentro.

2) Agire l’emozione, magari sminuendo il successo del mio collega o buttandomi in un lavoro frenetico per “competere”.

Oppure, potevo fare una terza cosa.

Potevo usare i miei strumenti. Potevo mettere in pratica quello che insegnavo. Potevo, per una volta, essere non solo il coach, ma anche il cliente.

Non Sei la Tempesta, Sei il Cielo che la Osserva

In quel momento di conflitto interiore, mi è venuto in soccorso uno degli strumenti più potenti e semplici del mio Toolkit PRESENZA: la Pratica del Testimone.

Questa pratica, radicata nella saggezza dell’Advaita Vedanta e resa popolare da maestri contemporanei come Eckhart Tolle e Mooji, si basa su un principio tanto semplice da enunciare quanto rivoluzionario da applicare: tu non sei i tuoi pensieri e non sei le tue emozioni. Tu sei la consapevolezza che li osserva.

L’errore che commettiamo è identificarci completamente con ogni stato interiore. Quando sorge la rabbia, diciamo “sono arrabbiato“. Quando sorge la tristezza, “sono triste“. E quando sorge l’invidia, “sono invidioso“. In questo modo, diventiamo la tempesta. Ci fondiamo con essa, e ne veniamo travolti.

La Pratica del Testimone ci invita a fare un piccolo, ma decisivo, passo indietro.

Ci invita a cambiare la nostra auto-narrazione da “Io sono invidioso” a “Io sto notando la presenza di un’emozione chiamata invidia dentro di me“. Sembra un gioco di parole, ma cambia tutto. Smetti di essere la tempesta e diventi il cielo, lo spazio vasto e imperturbabile in cui la tempesta appare, fa il suo corso e, inevitabilmente, si dissolve.

Il fine della pratica non è, come molti credono, smettere di provare emozioni “negative”. Sarebbe disumano e innaturale. Il fine è smettere di essere loro schiavi. È coltivare uno spazio interiore di libertà dal quale possiamo osservare la nostra stessa umanità con un po’ più di compassione e un po’ meno di dramma.

La Pratica in Azione: Anatomia di una Liberazione

Seduto sul divano, con quella tempesta di invidia e vergogna che mi ribolliva dentro, ho chiuso gli occhi. E ho iniziato la pratica.

Passo 1: Riconoscimento e Permesso. Invece di combattere o negare, ho semplicemente riconosciuto ciò che c’era. Ho detto a me stesso, con gentilezza: “Ok, c’è invidia qui. È una sensazione intensa e sgradevole. E va bene. Le do il permesso di esistere per qualche momento, senza doverla cacciare via”.

Questo primo passo disinnesca immediatamente la “seconda freccia” della vergogna.

Passo 2: Dis-identificazione e Localizzazione. Ho fatto un passo indietro mentale. Ho smesso di dire “io sono invidioso” e ho iniziato a osservare “l’energia dell’invidia“. Ho provato a localizzarla nel corpo. “Dove la sento?”. La sentivo chiaramente: una palla di energia calda e contratta nello stomaco e un’altra sensazione di costrizione alla gola.

Già solo nominarla e localizzarla la trasformava da un’identità totalizzante a un fenomeno localizzato.

Passo 3: Osservazione Curiosa e non Giudicante. A questo punto, sono diventato uno scienziato della mia esperienza interiore. Senza analizzare la storia (“è ingiusto, dovrei essere io…”), ho iniziato a osservare le pure sensazioni fisiche. “Questa palla nello stomaco, è statica o pulsa? È calda o fredda? Ha un colore?”.

L’ho osservata con la stessa curiosità con cui un bambino osserva un insetto. Non per capirla, ma solo per vederla per quello che era: un insieme di sensazioni fisiche ed energia.

Passo 4: Lasciare che si Dissolva. Non ho cercato di mandarla via. Non ho usato affermazioni positive. Ho semplicemente continuato a osservarla, respirandoci dentro. E, come sempre accade, ciò che viene pienamente visto e accettato, senza resistenza, inizia a perdere la sua carica. La palla nello stomaco ha iniziato a diventare meno densa, più porosa. La costrizione alla gola si è allentata. I pensieri di confronto si sono diradati.

Dopo forse due o tre minuti, la tempesta si era placata, lasciando al suo posto una calma quieta e un’inaspettata sensazione di leggerezza.

L’invidia non era stata “sconfitta”. Era stata “vista”. E in quello sguardo consapevole, si era semplicemente dissolta, come un’ombra quando si accende la luce.


Dal Testimone Interiore al Padre Presente

La bellezza di questa pratica è che, una volta compresa, diventa uno strumento universale. Qualche giorno dopo, ho avuto modo di applicarla in un contesto completamente diverso.

Ero appena tornato a casa, stanco. Alessandro, con la sua solita energia irruenta, correndo per il corridoio, ha urtato un vaso, che è caduto rompendosi in mille pezzi. La mia reazione istintiva è stata un’ondata di rabbia. La stanchezza, lo spavento, il fastidio. Stavo per urlare.

Ma in quella frazione di secondo tra lo stimolo e la reazione, è scattato l’allenamento. Ho visto la “palla di rabbia” formarsi dentro di me. L’ho riconosciuta (“eccola qui”). L’ho osservata per un istante. E questo mi ha dato quel millisecondo di spazio necessario per non essere agito da essa.

Mi sono inginocchiato, ho guardato mio figlio negli occhi (che erano pieni di paura, non di malizia), e ho detto con voce ferma ma calma: “Ok, non ti preoccupare, non ti sei fatto male. Ora però mi aiuti a pulire e la prossima volta facciamo più attenzione, va bene?”.

Sono stato un padre (GUIDARE), non un reattore. La Pratica del Testimone mi ha permesso di rispondere alla situazione reale (un bambino spaventato e un pavimento da pulire), invece che alla mia tempesta interiore (la rabbia e la stanchezza).

La lezione più profonda di quella serata sul divano è stata questa: la crescita spirituale non ci rende immuni alle emozioni umane. Anzi, forse ce le fa sentire con ancora più intensità. Ma ci dà anche gli strumenti per non esserne distrutti. Ci insegna che possiamo essere il contenitore spazioso per qualsiasi esperienza, senza che questa debba definirci o dirottare le nostre azioni.

Quelle emozioni “negative” non sono un segno che siamo sbagliati o che la nostra pratica non funziona. Sono l’occasione perfetta per praticare. Sono l’invito a ricordare che noi siamo il cielo, e non solo l’ultima nuvola passeggera.


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