Era un sabato mattina di inizio autunno, nel 2023.
La casa era immersa in quel silenzio raro e prezioso che a volte si manifesta nei fine settimana, prima che il mondo si metta in moto.
Christian e Alessandro erano ancora a letto, Maria Giovanna leggeva in salotto. Io ero seduto nel mio studio, sulla mia solita sedia, per i miei trenta minuti di pratica mattutina.
Occhi chiusi, schiena dritta, respiro lento.
Stavo cercando di fare ciò che insegnavano i maestri: osservare i pensieri senza afferrarli, sentire le emozioni senza diventarle. Ero nel pieno della mia pratica di autoindagine, la domanda “Chi sono io?” di Ramana Maharshi che risuonava silenziosamente nel mio spazio interiore.
Un’oasi di pace, un momento sacro solo per me.
O almeno, così credevo.
Improvvisamente, un leggero scricchiolio del parquet. La porta dello studio, che avevo lasciato socchiusa, si aprì un po’ di più. Sentii una piccola presenza ferma sulla soglia. Non aprii gli occhi, sperando che chiunque fosse capisse e se ne andasse. Invece, la presenza si avvicinò. Due piccole mani si appoggiarono sulle mie ginocchia.
Aprii gli occhi. Davanti a me, in pigiama e con i capelli arruffati dal sonno, c’era Gaia.
Avrà avuto sette anni. Mi guardava con quella curiosità intensa e priva di filtri che solo i bambini possiedono.
In quel momento, il mio primo impulso, inconfessabile e vergognoso, fu l’irritazione. “Proprio ora? Non vedi che sto facendo una cosa importante?”.
Un pensiero fugace, figlio dell’ego spirituale che crede che la sua pratica sia più importante della vita stessa.
Gaia non disse nulla per qualche secondo, continuando a fissarmi. Poi, inclinando la testa di lato, mi fece la domanda più semplice e, come avrei scoperto, più profonda che potessi ricevere.
“Papà, a cosa serve stare fermo con gli occhi chiusi?”
Gelo.
In una frazione di secondo, nella mia mente si affollarono decine di risposte complesse e sofisticate. A
vrei potuto parlarle della neuroplasticità del cervello, delle onde alfa e theta, della differenza tra il Sé e l’io-pensiero.
Avrei potuto citare Ramana Maharshi, Eckhart Tolle o il Buddha. Avrei potuto spiegarle il concetto di “testimone imparziale” e di “dis-identificazione dai contenuti mentali“.
Avevo a disposizione un arsenale di concetti spirituali, pronto a essere sfoderato per dimostrare quanto fossi preparato.
Ma mentre guardavo il viso di mia figlia, capii che ognuna di quelle risposte sarebbe stata una menzogna. Non perché falsa in sé, ma perché non sarebbe stata una risposta per lei. Sarebbe stata una performance per me. Un modo per proteggere la mia identità di “ricercatore spirituale” e affermare la mia presunta saggezza.
Quella domanda non richiedeva una lezione. Richiedeva una verità. E io, in quel momento, non sapevo come dargliela.
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La Tentazione della Risposta Complicata
Il silenzio si allungò. Gaia continuava a guardarmi, paziente. E io sentivo il panico crescere.
Com’era possibile che io, che scrivevo e insegnavo queste cose, non sapessi spiegarle a una bambina di sette anni?
La verità è che è molto più facile parlare di spiritualità che viverla. È più facile usare parole come “presenza” e “consapevolezza” che incarnarle quando tua figlia interrompe il tuo momento sacro.
In quel momento, non ero un maestro di presenza. Ero un papà che voleva solo finire la sua meditazione in pace.
La mia mente continuava a formulare frasi complesse: “Beh, amore, vedi… la mente è come un cielo, e i pensieri sono come le nuvole. Noi impariamo a essere il cielo, non le nuvole…”.
Immaginai la sua espressione confusa. No, non funzionava.
“Serve a calmare il sistema nervoso, riducendo la produzione di cortisolo…”. Peggio ancora. Sembravo un manuale di medicina.
Il problema non era la domanda. Il problema ero io.
Per anni avevo accumulato conoscenza sulla spiritualità. Avevo letto centinaia di libri, seguito corsi, praticato tecniche. Ma la domanda di Gaia mi mise di fronte a una verità brutale: la conoscenza sulla cosa non è la cosa. Puoi conoscere ogni singolo dettaglio della ricetta di una torta, ma se non l’hai mai assaggiata, non sai davvero che sapore ha.
Gaia non mi stava chiedendo la ricetta. Mi stava chiedendo che sapore avesse la torta. E io stavo per darle la lista degli ingredienti.
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La Palla di Vetro con la Neve
Fu allora che, in un lampo di intuizione, lasciai andare tutto.
Svuotai la mente da tutte le teorie e guardai mia figlia. Smisi di cercare la risposta “giusta” e cercai la risposta “vera”. E la risposta vera doveva essere semplice, perché la verità lo è sempre.
Mi venne in mente un oggetto che avevamo sulla libreria. Una di quelle palle di vetro con dentro un paesaggio innevato.
“Vieni qui,” le dissi, prendendola in braccio e sedendola sulle mie ginocchia.
Le indicai la palla di vetro. “Vedi questo oggetto?”.
Lei annuì.
“Guarda cosa succede se lo scuoto”.
Presi la palla e la agitai con forza. La neve sintetica si sollevò, creando una piccola bufera bianca che oscurava completamente il paesaggio all’interno.
“Vedi? Ora è tutto un caos. Non si capisce niente, vero? È tutto bianco e confuso.”
Gaia mi guardò, affascinata.
“Ecco,” continuai, appoggiando delicatamente la palla di vetro sul tavolo.
“La nostra testa, a volte, è proprio come questa palla di vetro agitata. I pensieri, le paure, le cose da fare… sono come tutti questi fiocchi di neve che girano all’impazzata. E quando è tutto così agitato, non riusciamo a vedere le cose come sono davvero. Ci sentiamo confusi, nervosi, tristi.”
Rimanemmo in silenzio per un minuto, guardando la neve che, lentamente, cominciava a depositarsi sul fondo.
“Meditare,” le dissi con un filo di voce, “è come smettere di agitare la palla. È decidere di appoggiarla e aspettare. Stare fermi con gli occhi chiusi serve a questo. A dare il tempo alla neve di posarsi. E guarda…”
La neve si era quasi completamente depositata. L’acqua era tornata limpida. E ora, il piccolo villaggio all’interno, con le sue casette e i suoi alberelli, era perfettamente visibile in ogni dettaglio.
“Quando tutta la neve si è posata,” conclusi, “finalmente possiamo vedere le cose con chiarezza. E quando vediamo con chiarezza, sappiamo qual è la cosa giusta da fare. Siamo più gentili, più tranquilli, e vogliamo più bene a tutti. A te, a mamma, ai tuoi fratelli.”
Gaia mi guardò. Non disse nulla. Mi diede un bacio sulla guancia, scese dalle mie ginocchia e corse via, tornando ai suoi giochi.
Io rimasi lì, seduto. E capii di aver dato quella spiegazione tanto a lei quanto a me stesso.
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Cosa Significa “Vedere con Chiarezza”
La metafora della palla di vetro non era solo una bella storiella per una bambina. Era la descrizione più accurata che avessi mai trovato del pilastro ESSERE.
L’autoindagine di Ramana Maharshi, “Chi sono io?“, non è un esercizio intellettuale. È un invito a smettere di identificarsi con la “neve” in movimento, i pensieri, i ruoli, le emozioni, la storia personale, per riconoscere di essere lo spazio limpido e silenzioso in cui tutta quella neve appare e scompare.
“Vedere con chiarezza” significa proprio questo.
Significa agire da quello spazio di quiete, invece che dalla confusione della bufera. E questo ha conseguenze incredibilmente pratiche:
- Nelle decisioni: Invece di decidere sulla base dell’ansia o della pressione del momento, aspetti che la neve si posi per vedere qual è la scelta realmente allineata ai tuoi valori.
- Nelle relazioni: Invece di reagire d’impulso a una parola del tuo partner o di tuo figlio, crei uno spazio che ti permette di rispondere con comprensione e amore.
- Nel lavoro: Invece di essere travolto da mille urgenze, riesci a vedere quali sono le poche attività veramente essenziali e a dedicare loro la tua energia migliore.
Quella mattina, la domanda di Gaia non era stata un’interruzione della mia pratica. Era stata la pratica stessa. Un koan zen sotto forma di bambina in pigiama, che mi aveva costretto a passare dalla teoria all’essenza, dalla performance all’autenticità.
Mi ha ricordato che il fine ultimo della meditazione non è diventare un “bravo meditatore”. È diventare un essere umano più presente, più amorevole e più saggio nella confusione della vita di tutti i giorni.
Il vero test della nostra pratica spirituale non si svolge sul cuscino da meditazione, nel silenzio di uno studio. Si svolge a tavola, quando i bambini rovesciano l’acqua. Si svolge in macchina, quando siamo bloccati nel traffico. Si svolge in ufficio, quando riceviamo un’email difficile.
È lì che vediamo se abbiamo solo scosso la palla di vetro o se abbiamo imparato a lasciarla riposare.
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