In questo articolo voglio riportarti un passo, secondo me eccezionale, di Seneca, tratto dall’opera Consolazione alla madre Elvia. In questo passo fondamentale si evince nettamente il concetto che Seneca definiva praemeditatio malorum.

Buona lettura.

Consolazione alla madre Elvia, 1, 1-2

La condizione originaria di noi uomini è buona, a patto che non l’abbandoniamo.
La natura ha fatto si che non ci fosse bisogno di grandi mezzi per vivere bene: ciascuno è in grado di rendersi felice.

Le cose che vi vengono da di fuori hanno poca importanza e non influiscono gran che né in un direzione né nell’altra; il saggio non si lascia esaltare dalla prosperità né abbattere dall’avversità. Si è sempre sforzato di contare soprattutto su se stesso e cercare in se stesso tutti i motivi della sua gioia.

E con ciò? Affermo di essere saggio? No. Se io, infatti, fossi in grado di qualificarmi tale, non solo escluderei di essere misero, ma mi proclamerei il più fortunato di tutti, arrivato vicino a Dio.

Ora, e tanto basta ad alleviare tutte le miserie, mi sono affidato a uomini saggi e, non sentendomi ancora abbastanza forte per aiutare me stesso, mi sono rifugiato in accampamenti altrui, in quelli, ovviamente, di coloro che sanno difendere con facilità se stessi e gli altri. Essi mi hanno prescritto di rimanere in piedi, come sentinella, e di prevedere tutti i tentativi della fortuna, tutti i suoi assalti, molto prima che si scatenino.

La disgrazia è gravosa a quelli a cui giunge inattesa, ma sostiene facilmente colui che l’ha sempre aspettata. Anche l’arrivo dei nemici abbatte coloro che si fanno cogliere di sorpresa, ma coloro che si sono preparati in anticipo alla guerra che doveva venire, sostengono facilmente, ben schierati e disposti, il primo assalto, che è il più tumultuoso.

Io non ho mai dato credito alla fortuna, nemmeno quando sembrava voler mantenere la pace,; tutti quei beni che mi accumulava attorno con grande compiacenza, denaro, cariche, successo, io li ho messi in luogo donde potesse riprenderseli, senza che io ne risentissi. Ho mantenuto una grande distanza tra le cose e me: perciò essa me le ha rubate, non strappate. L’avversità non frantuma se non chi si è lasciato ingannare dalla prosperità.

Coloro che hanno amato i suoi doni come proprietà personali e permanenti e che, per quei doni, vollero essere ammirati, giacciono a terra e piangono, poiché queste attrattive, ingannevoli e caduche, provocano l’abbattimento degli animi vacui e puerili, ignari di qualsiasi voluttà consistente.

Ma chi non si è lasciato gonfiare dalla prosperità, non si scoraggia al mutare della situazione. Mantiene l’animo invitto contro l’una e l’altra sorte, con la fermezza già provata, poiché già quando era felice, ha sperimentato ciò che poteva servire contro l’infelicità.

Perciò io ho sempre ritenuto che, dentro quelle cose che tutti desiderano, non ci fosse nessun vero bene, le ho anche trovate vuote, imbellettate di attrattive ingannevoli, ma prive di un contenuto corrispondente alla facciata: adesso, nelle cose sono chiamate mali, non trovo nulla che sia tanto terribile e duro, quanto lo minacciava la credenza del volgo. Anche la parola “esilio”, in forza di una convinzione comune, suona troppo dura alle nostre orecchie e ferisce l’uditore come parola triste ed esecranda: così, di fatto, ha stabilito il popolo. Ma i saggi abrogano la maggior parte dei decreti del popolo.


Un passo del genere non si può scrivere se le cose dette non provengono dall’intimo, ossia se non sono espressione di un autentico sentire.

Seneca, davvero, non si è lasciato frantumare dalle avversità, perché, per quanto attratto, non si era lasciato ingannare dalla prosperità; perché, quando era felice, aveva già iniziato ad apprendere e a sperimentare ciò che poteva servire contro la cattiva sorte.

Bibliografia:
Tutte le opere. Seneca

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