Ben Hogan è considerato uno dei più forti giocatori di golf di tutti i tempi. All’apice della carriera, una mattina di febbraio del 1949, subì un violentissimo incidente d’auto che quasi lo uccise. Aveva il bacino rotto, una spalla fratturata, costole spezzate e una caviglia incrinata. Ingessato dalla testa ai piedi, quasi morì un mese dopo l’incidente a causa di un embolo che si era formato in una gamba. Un chirurgo gli salvò la vita per un soffio. Quando ritornò a casa, due mesi dopo l’incidente, pesava quarantatré chilogrammi. Tutti davano per scontato che non avrebbe più giocato a golf. Tutti tranne lui.

“Un giorno, con grande sforzo di volontà, fece il primo passo. Inciampò, provò di nuovo e poté camminare avanti e indietro per la stanza. Poi si spostò verso il salotto e prese a fare il giro di tutti i mobili. In seguito, per riabilitare braccia e polsi, si esercitava a schiacciare le palline da tennis. Qualche tempo dopo chiese alla moglie di portargli una mazza da golf, che avrebbe usato come bastone per fare il giro dell’isolato. Escogitò un sistema: camminava finché ce la faceva, poi si fermava a riposare. Ogni giorno si spingeva più lontano finché non fu in grado di girare intorno all’isolato senza fermarsi. Stava usando lo stesso metodo che lo aveva fatto diventare un campione: pratica e concentrazione, esercizio e concentrazione”.

Così, giorno per giorno, lavorò per ritornare a camminare. I muscoli gli facevano male, ma Hogan non voleva saperne di arrendersi. Verso l’inizio dell’autunno, circa sette mesi dopo l’incidente, si ripresentò al country club per provare a tirare qualche colpo. A dicembre riprese in modo più continuativo, ma le gambe si gonfiavano.

Un giorno provò a giocare una partita completa: ne pagò le conseguenze rimanendo a letto per i due giorni seguenti. Nel gennaio 1950, meno di un anno dopo l’incidente, si iscrisse a un torneo minore. Arrivò secondo ma Hogan non se la prese: aveva dimostrato a se stesso di essere ancora un professionista. Non gli restava ora che iscriversi a un torneo di primo livello: lo US Open.

L’8 giugno 1950, un anno e mezzo dopo l’incidente, fu il suo primo giorno di torneo. Si piazzò bene, ma ne pagò subito il prezzo molto alto sotto forma di sofferenze fisiche.

“Il venerdì, tornando in albergo con la moglie e l’avvocato, fece fermare la macchina perché gli girava la testa e aveva dei conati di vomito. Una volta nella stanza d’albergo, la moglie lo aiutò a togliere metri di fasce e bende dalle gambe tumefatte, trasportandolo di peso nella vasca da bagno, dove Ben rimase per ore nell’acqua calda per rilassare i muscoli tesi”.

Il giorno dopo visse il momento più drammatico di tutta la sua carriera agonistica.

“Gli sembrava che tutti i nervi fossero infiammati mentre le gambe, tuttora gonfie, dovevano sorreggerlo per tredici chilometri e trentasei buche di gioco teso, diciotto alla mattina e diciotto al pomeriggio. La temperatura superava i trentacinque gradi e Ben dovette ricorrere alla qualità speciale che tutti i campioni tengono in riserva: il coraggio”.

Quando giunse a fine giornata, dopo una dura lotta contro il dolore e la fatica che, oltre a flagellarlo, lo distraevano dalla concentrazione che richiedeva il torneo, fu tentato di mollare tutto.

“La sua gamba sinistra era ormai insensibile e un dolore sordo era arrivato alla regione pelvica. Il buon senso gli suggeriva di fallire un colpo e lasciar perdere tutto, mettendo fine all’incubo. Non poteva neanche pensare di essere in grado di giocare anche il giorno dopo per altre diciotto buche; ma il secondo colpo gli riuscì bene. L’abitudine di fare sempre del suo meglio, quali che fossero le probabilità contrarie, era stata troppo forte”.

Quella notte accadde qualcosa che non si sarebbe mai aspettato. Dormì sodo e si svegliò fresco. Il gonfiore alla gamba era quasi completamente scomparso. Si sentì in piene forze, come se dopo aver passato il punto più basso del dolore e della sofferenza, senza mollare né arrendersi, fossero stati il dolore e la sofferenza stessa ad arrendersi, a mollare e a lasciarlo libero. Giocò come giocava nei suoi giorni migliori, e vinse il torneo.

Da allora, conclude Og Mandino la storia, “Hogan, il campione, ha vinto numerosi premi ma l’intrepido coraggio che mostrò in quel torneo lo mette in cima alle prestazioni atletiche di ogni tempo. Fu il trionfo della mente e del cuore sulle avversità fisiche. Fu un atto capace di ispirare tutti coloro che, giorno dopo giorno, e sono milioni, lottano per superare le loro infermità”.

(Storia tratta da Successo senza limiti )

Bibliografia:
Successo senza limiti di Og Mandino

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