Era un sabato mattina di metà primavera del 2024. Ore 6:15.
Il resto della casa dormiva ancora, avvolto in un silenzio quasi sacro. Io ero nel mio studio, sul mio tappetino da yoga, immerso nella mia routine mattutina del Sistema PRESENZA. Era il momento dedicato al pilastro ESSERE, quello del radicamento spirituale.
L’aria era fresca, la luce dell’alba filtrava appena dalla finestra, disegnando lunghe ombre sul pavimento. Stavo eseguendo la sequenza di Upa Yoga di Sadhguru, una pratica che ormai conoscevo a memoria.
Ogni movimento era preciso, ogni respiro controllato.
Sentivo i muscoli allungarsi, l’energia fluire nel corpo. Nella mia mente, ero un modello di disciplina e devozione. Mi sentivo centrato, calmo, quasi illuminato.
Un monaco nel suo tempio privato.
“Ecco la vera pratica,” mi dicevo, gongolando nel mio ego spirituale. “Questa è la base per una vita consapevole. Qui, in questo silenzio, su questo tappetino, sto costruendo la mia fortezza interiore.”
Terminata la sequenza, mi sedetti per la mia sessione di autoindagine. Chiusi gli occhi, e un senso di pace profonda mi avvolse. Ero disconnesso dal mondo, connesso con l’Essere. Ero esattamente dove dovevo essere, a fare esattamente ciò che dovevo fare. O almeno, questa era la storia che mi raccontavo.
Poi, dalla cucina, un rumore sordo. Un “tonfo”, seguito dal suono inconfondibile di un liquido che si sparge sul pavimento e dal pianto strozzato di Alessandro.
Il mio stato di beatitudine zen si frantumò in un microsecondo.
Il primo pensiero che attraversò la mia mente non fu di preoccupazione. Fu di pura, distillata irritazione. “Ma è possibile? Neanche dieci minuti di pace. Proprio ora doveva succedere?”. Il monaco illuminato era svanito, sostituito da un uomo di 47 anni infastidito perché la sua sacra routine era stata interrotta.
Mi alzai, il fastidio che mi tendeva i muscoli delle spalle più di qualsiasi asana, ed entrai in cucina. La scena era un piccolo disastro: il cartone del latte a terra, una pozza bianca che si allargava rapidamente sulle piastrelle, e mio figlio Alessandro, dieci anni, impietrito con le lacrime agli occhi, non per il danno, ma per la paura della mia reazione.
In quel momento, mentre guardavo i suoi occhi spaventati, ebbi una rivelazione tanto accecante quanto umiliante. La mia pace, la mia centratura, la mia presunta “spiritualità” era una bolla di sapone. Era durata esattamente fino al primo, inevitabile, contatto con la vita reale.
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La Fragilità della Pace Condizionata
Mentre pulivo il latte, un dialogo feroce si scatenava dentro di me.
Una parte di me, l’ego ferito, continuava a lamentarsi: “Tutta la pratica mattutina rovinata. Tutta quella calma svanita per una stupida distrazione”. Ma un’altra voce, più tranquilla e onesta, si faceva strada: “A cosa serve la tua calma, Marco, se non sopravvive a un cartone di latte versato? A cosa serve la tua presenza, se non sai offrirla a tuo figlio spaventato in questo preciso istante?”.
Ho capito in quel momento di soffrire di quella che ho battezzato la “Sindrome del Monaco Part-Time“.
Il Monaco Part-Time è colui che tratta la pratica spirituale come un’attività separata dal resto della vita. È impeccabile nelle ore “sacre”: si alza presto, medita, fa yoga, legge i testi giusti. Si sente spiritualmente evoluto quando è sul suo cuscino, nel silenzio del suo studio. Ma appena toglie l’abito da monaco e indossa quello di padre, marito, professionista, tutta quella saggezza svanisce. Diventa reattivo nel traffico, impaziente con i figli, ansioso per il lavoro.
La sua pace è condizionata. Esiste solo in un ambiente controllato, sterile, protetto. È una pace da laboratorio, non da vita vissuta.
Quella mattina, il latte versato non aveva rovinato la mia pratica. L’aveva rivelata per quello che era: un esercizio teorico, un guscio vuoto. Il mio errore non era stato arrabbiarmi. L’errore era credere che la vera pratica fosse quella sul tappetino.
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Il Ponte della Presenza: Dalla Pratica Formale alla Vita Incarnata
I maestri come Sadhguru o Thích Nhất Hạnh non hanno mai detto che lo yoga o la meditazione sono il fine. Sono il mezzo. Non sono la destinazione; sono il campo di allenamento. Sul tappetino, nel silenzio, alleniamo il muscolo della presenza in condizioni facili. Ma il vero campionato si gioca fuori, nella cucina della vita, quando le cose si rovesciano.
Quell’episodio mi ha costretto a sviluppare un nuovo sistema, non per sostituire la pratica mattutina, ma per estenderla. L’ho chiamato “Il Ponte della Presenza“, un insieme di micro-pratiche per trasportare la calma del “tempio” nel caos del “villaggio”.
1. L’Intenzione di Transizione
Il primo passo è stato cambiare la fine della mia routine. Invece di alzarmi e tuffarmi nella giornata, ora dedico l’ultimo minuto della mia pratica a impostare un’intenzione chiara. Con gli occhi ancora chiusi, affermo mentalmente: “La mia pratica formale è finita. La mia pratica reale inizia ora. Porto questa calma con me. Ogni momento è un’opportunità per essere presente”. Questo piccolo rituale crea un ponte mentale tra i due mondi, ricordandomi che il mio “lavoro” non è finito, ma è appena iniziato.
2. Le Ancore di Presenza
Il secondo passo è stato disseminare la mia giornata di “promemoria”. Ho identificato tre azioni che compio ripetutamente e le ho trasformate in ancore di presenza. Per me sono:
- Ogni volta che bevo un sorso d’acqua: Faccio un respiro consapevole.
- Ogni volta che passo attraverso una porta: Sento i miei piedi sul pavimento.
- Ogni volta che mi lavo le mani: Mi concentro sulla sensazione dell’acqua e del sapone.
Queste ancore non richiedono tempo extra. Semplicemente, usano azioni ordinarie per riportarmi, per un istante, al momento presente, impedendo alla mente di vagare ininterrottamente per ore.
3. L’Accoglienza dell’Interruzione
Questo è stato il passo più difficile e trasformativo. Ho iniziato a re-incorniciare le interruzioni. Un figlio che mi chiama mentre lavoro, una telefonata inattesa, un imprevisto domestico. Invece di vederli come ostacoli alla mia pace o alla mia produttività, ho iniziato a vederli come “esercizi di presenza a sorpresa”. L’universo mi sta offrendo un test. È un’opportunità per vedere se la mia calma è reale o solo un accessorio. Questo piccolo cambio di prospettiva trasforma la frustrazione in una sfida, l’irritazione in curiosità.
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La Prova del Nove: Quando il Ponte Regge
Qualche settimana dopo, il Ponte è stato messo alla prova. Stavo lavorando a un progetto importante con una scadenza stretta. Ero in pieno “deep work”. Improvvisamente, sento Alessandro e Gaia litigare furiosamente nella stanza accanto per un videogioco.
Il vecchio Marco, il Monaco Part-Time, sarebbe scattato, urlando di fare silenzio, rovinando il suo focus e la relazione con i suoi figli.
Il nuovo Marco ha sentito la rabbia salire. Ma poi è scattata un’ancora. Mi sono alzato per andare da loro, e passando attraverso la porta (la mia seconda ancora), ho sentito i piedi sul pavimento. Ho fatto un respiro. Ho ricordato l’intenzione: “la mia vera pratica inizia ora”.
Sono entrato nella loro stanza. L’energia era diversa. Non ero più un manager irritato la cui produttività era stata minacciata. Ero un padre. Mi sono inginocchiato tra loro (pilastro GUIDARE), e con una calma che ha sorpreso prima di tutto me, ho detto: “Ok, raccontatemi cosa sta succedendo. C’è abbastanza papà per ascoltare entrambi”.
Non ho risolto il problema per magia. Ma ho cambiato la dinamica. Ho portato presenza dove c’era caos. E in quel momento, ho sentito più pace e connessione che in qualsiasi meditazione “perfetta”. Il ponte aveva retto.
L’obiettivo non è diventare un essere umano imperturbabile che non prova mai irritazione. L’obiettivo è accorciare il tempo tra lo stimolo e la risposta consapevole. È notare la reazione, fare un passo indietro e scegliere di agire a partire dal nostro centro, invece che dalla nostra periferia agitata.
La lezione più grande che mi ha dato il latte versato è questa: la spiritualità non è un’evasione dalla vita. È l’immersione più totale nella vita. Il nostro monastero non è in un ashram sperduto. È nella nostra cucina, nel nostro ufficio, nelle nostre relazioni. E ogni momento, non importa quanto banale o caotico, è un invito a essere presenti.
La vera pratica inizia solo quando ci alziamo dal cuscino.
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